Categorie
Approfondimenti di Psicologia

FREUD: la concezione dinamica del funzionamento mentale

Secondo Freud una PULSIONE può essere  espressa in moltissimi modi, esistono meccanismi della mente, a suo avviso, che possono dirottare l’energia mentale associata a una particolare pulsione verso attività diverse. Dal punto di vista dinamico agli istinti può accadere che:

  • Ne venga bloccata temporaneamente l’espressione;
  • Vengano espressi in maniera modificata, oppure in modo diretto non modificato;

Virtualmente ogni processo nella teoria psicoanalitica può essere descritto in termini di dispendio energetico nei confronti di un oggetto o di una forza che inibisce il dispendio di energia, cioè inibisce la gratificazione di un istinto. Proprio perché richiede un dispendio energetico, le persone che dirigono la maggior-parte dei loro sforzi verso l’inibizione finiscono per sentirsi così stanchi e annoiati. L’interazione tra la scarica  e l’inibizione degli istinti costituisce la base degli aspetti dinamici della teoria psico-analitica: il concetto di ANGOSCIA ne costituisce la chiave di lettura. Nella teoria psico-analitica l’angoscia è un’esperienza  emotiva  dolorosa che rappresenta una minaccia o un pericolo per la persona. In un stato di angoscia liberamente fluttuate, gli individui sono incapaci di collegare il proprio stato di tensione a un pericolo specifico; al contrario, in una condizione di paura, la fonte della minaccia è nota. Dal punto di vista teorico, l’angoscia rappresenta un’emozione dolorosa, che agisce come segnale di un pericolo incombente per l’ IO. In altri termini, l’angoscia, una funzione dell’ IO, lo mette in  allarme rispetto ad un pericolo consentendogli così di agire.

L’ANGOSCIA: I MECCANISMI DI DIFESA

Le persone sviluppano meccanismi di difesa contro l’angoscia, e costruiscono modi per distorcere la realtà ed escludere dalla coscienza  determinati sentimenti, così da non provare angoscia, questi meccanismi di difesa sono funzioni messe in atto dall’IO; rappresentano uno sforzo strategico compiuto dall’IO per far fronte agli impulsi socialmente inaccettabili dell’ES.

LA NEGAZIONE

Freud ha individuato una serie di meccanismi di difesa, alcuni sono relativamente semplici, o primitivi dal punto di vista psicologico, mentre altri sono più complessi. Un meccanismo di difesa particolarmente semplice è la negazione. Le persone, nei propri pensieri inconsci, talvolta negano l’esistenza di un fatto traumatico o altrimenti inaccettabile socialmente. La negazione secondo gli psicanalisti è un meccanismo di difesa disadattivo in quanto allontana la persona dalla realtà, così gli psicanalisti considerano “l’orientamento alla realtà” fondamentale per la salute emotiva, e dubitano che le distorsioni circa se stessi e gli altri possano avere un valore adattivo, eppure alcuni psicologi suggeriscono che le illusioni positive e l’autoinganno possano essere adattivi. Le illusioni positive su se stessi, sulla propria capacità di controllare gli eventi e il futuro possono essere positive e forse essenziali per la salute mentale. La risposta a queste concezioni contrastanti sembra dipendere dalla portata della distorsione, dalla sua pervasività e dalle circostanze in cui si verifica. La negazione può essere ADATTIVA quando l’azione è impossibile, come nel caso in cui una persona si trovi in una situazione immodificabile, ma è DISADATTIVA quando impedisce di intraprendere un’azione costruttiva in grado di modificare una situazione che può essere cambiata.

LA PROIEZIONE

Nella proiezione, ciò che è interno e inaccettabile  viene proiettato al di fuori e considerato esterno. Le persone si difendono dal riconoscimento delle proprie qualità negative proiettandole sugli altri. Per esempio, invece di riconoscere l’ostilità in se stessi, una persona talvolta può vedere gli altri come individui ostili. Se un individuo interpreta le azioni altrui impiegando idee che sono anche caratteristiche negative del proprio concetto di sé finirà per proiettare queste caratteristiche negative sugli altri, a volte negandola come parte di sé.

L’ISOLAMENTO AFFETTIVO

Un altro modo di affrontare e gestire l’ansia consiste nell’isolare gli eventi nella memoria o isolare le emozioni dal contenuto di un ricordo o di un impulso. Nell’ isolamento affettivo, all’impulso, al pensiero o all’atto non si nega l’accesso alla coscienza, ma si nega l’emozione normalmente associata. Il risultato del ricorso al meccanismo dell’isolamento affettivo è l’intellettualizzazione, che porta alla valorizzazione del pensiero nei confronti dell’emozione e alla creazione di compartimenti di pensiero strettamente logici. In questi casi i sentimenti, che pure esistono, possono essere scissi. Le persone che utilizzano il meccanismo dell’isolamento ricorrono anche all’annullamento retroattivo che magicamente annulla un atto o un desiderio con un altro, una specie di magia negativa, in cui la seconda azione revoca la prima, quasi che nulla fosse accaduto, mentre in realtà entrambe le azioni si sono verificate. E’ il meccanismo che si riscontra nelle compulsioni in cui la persona prova un impulso irresistibile a eseguire una certa azione (per esempio, annulla la fantasia suicida, chiudendo coattivamente il rubinetto del gas in cucina).

FORMAZIONE REATTIVA

Nella formazione reattiva l’individuo si difende contro l’espressione di un impulso inaccettabile semplicemente riconoscendo ed esprimendo il suo opposto. Questa difesa è evidente nei comportamenti socialmente desiderabili che appaiono però rigidi, esagerati e inadeguati. La persona che utilizza la formazione reattiva non può ammettere sentimenti diversi, come per esempio le madri iperprotettive che non possono ammettere l’ostilità cosciente verso i propri figli. La formazione reattiva emerge chiaramente quando la difesa crolla, come nel tipico esempio dell’uomo che “non farebbe del male a una mosca” che viene colto da furia omicida.

RAZIONALIZZAZIONE

La razionalizzazione è un meccanismo di difesa più complesso e più maturo rispetto al processo della negazione poiché in essa le persone non negano semplicemente l’esistenza di un pensiero o il fatto che un’azione abbia avuto luogo. Nella razionalizzazione le persone riconoscono l’esistenza di un’azione, ma ne distorcono la motivazione sottostante. Il comportamento è reinterpretato, così da sembrare ragionevole e accettabile, l’IO, in altre parole, costruisce un motivo razionale per spiegare un’azione inaccettabile che in realtà è causata da impulsi irrazionali dell’ES. E’ particolarmente interessante notare che con la razionalizzazione si può esprimere l’impulso pericoloso apparentemente senza incorrere nella disapprovazione del Super-IO. Alcune delle atrocità più terribili perpetrate dalla razza umana sono state commesse in nome dell’amore. Il ricorso alla razionalizzazione  permette di essere ostili facendo professione d’amore, o di essere immorali proprio mentre si proclama di perseguire la moralità. Ovviamente per essere veramente efficace, un meccanismo di difesa deve essere inconsapevole.

LA SUBLIMAZIONE

In questo meccanismo di difesa relativamente complesso, l’oggetto originario della gratificazione è sostituito da un obiettivo culturale più elevato, più lontano dall’espressione diretta dell’istinto. Mentre gli altri meccanismo di difesa impegnano gli istinti in uno scontro frontale e, in generale, ne impediscono la scarica, nella sublimazione l’istinto viene indirizzato verso un canale nuovo e utile. Al contrario degli altri meccanismi di difesa, qui l’Io non deve sostenere un costante dispendio energetico per prevenire la scarica.

LA RIMOZIONE

Nella rimozione, un pensiero, un’idea o un desiderio sono respinti dalla coscienza. Essi sono tanto traumatici e minacciosi per il sé che vengono seppelliti nell’inconscio, custoditi nelle profondità della mente. Si ritiene che la rimozione rivesta un ruolo in tutti gli altri meccanismi di difesa e, come le altre difese, richieda un costante dispendio di energia per mantenere al di fuori della coscienza ciò che può rappresentare un pericolo. Alcune persone possono essere tendenzialmente orientate alla rimozione, queste persone raramente riferiscono di provare ansia o altre emozioni negative. Esteriormente sono piuttosto calme, eppure la loro calma viene pagata a caro prezzo. I soggetti che ricorrono maggiormente alla rimozione sono più reattivi allo stress rispetto ad altri, e sono più esposti a diverse malattie. L’apparente buonumore di questi individui maschera talvolta un’elevata pressione sanguigna e un numero di pulsazioni elevato che li predispongono a malattie come i disturbi cardiaci e il cancro, dato che porta a ipotizzare che una mancanza di espressività emotiva sia associata a un più elevato rischio di malattia.

In sintesi, la ricerca contemporanea sostiene che le persone siano talvolta motivate a bandire dalla propria  esperienza conscia i pensieri minacciosi o dolorosi. Come aveva ipotizzato Freud, le persone che riferiscono consapevolmente di non avere disturbi psicologici in realtà nascondono pensieri ed emozioni legati all’ansia dei quali sembrano essere inconsapevoli.

Tratto da: La scienza della personalità,  D. Cervone e L. A. Pervin

 

 

 

 

 

 

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

GROUPTHINK

Il GROUPTHINK (pensiero di gruppo) è la tendenza a desiderare l’armonia di gruppo ed evitare il dibattito critico durante i processi decisionali all’interno di un gruppo. Il pensiero di gruppo è stato collegato a una serie di risultati negativi dei gruppi come ad esempio a un precoce senso di efficienza collettiva nel processo o all’eliminazione delle critiche produttive, entrambe dinamiche che portano a un eccesso di sicurezza e a troppo poco tempo impiegato nel processo decisionale. Il groupthink è stato descritto per la prima volta nel 1972 da IRVING JANIS, professore di psicologia alla YALE University, che identificava otto “sintomi” che possono aiutare a diagnosticare se un gruppo abbia un problema di questo genere. Gli otto sintomi possono essere sintetizzati in tre grandi gruppi:

  1. Tipo 1: ECCESSO DI SICUREZZA NEL GRUPPO
    1. Illusione di invulnerabilità;
    2. Fede indiscussa nella moralità del gruppo e nelle sue decisioni;
  2. CHIUSURA MENTALE
    1. Razionalizzazione o sottovalutazione di segnali che potrebbero contrastare i presupposti del gruppo;
    2. Stereotipizzazione negativa dei gruppi esterni;
  3. TENDENZA ALL’UNIFORMITA’
    1. Autocensura delle idee che deviano dall’apparente consenso del gruppo;
    2. Illusione di unanimità all’interno del gruppo;
    3. Pressione diretta sui membri che mettono il gruppo in discussione;
    4. Mindguards (o guardie della mente, persone che si sono autoproclamate membri) che proteggono il gruppo (e specialmente il leader) da informazioni discordanti;

La coesione di gruppo, considerata positiva se moderata, è una delle più importanti premesse al pensiero di gruppo, insieme a difetti strutturali, assenza di una leadership imparziale, presenza di membri del gruppo troppo simili tra loro (che implica insufficiente diversità di opinione), come anche un contesto situazionale di minacce esterne e l’insorgere di dilemmi morali.

Tratto da: Psicologia del lavoro e delle organizzazioni – di Donald M. Truxillo, Talya N. Bauer, Berrin Erdogan

 

Categorie
Documentari di Psicologia

S. MILGRAM: esperimento sull’obbedienza all’autorità

Categorie
Documentari di Psicologia

S. ASCH : studi sul conformismo

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

LA DISSONANZA COGNITIVA

La Teoria della dissonanza cognitiva di LEON FESTINGER (1957) sostiene che i nostri atteggiamenti cambiano perché siamo motivati a mantenere una COERENZA tra il nostro modo di pensare, sentire, agire. Essa presume che noi sentiamo una tensione, uno stato spiacevole o una mancanza di armonia “DISSONANZA” quando due pensieri o credenze o atteggiamenti o stati di consapevolezza del nostro comportamento (cognizioni, informazioni), simultaneamente accessibili, sono psicologicamente incoerenti, come quando si decide di dire o di fare qualcosa ma si hanno sentimenti contrastanti. La teoria della dissonanza cognitiva si riferisce per lo più alla discrepanza tra ATTEGGIAMENTI e COMPORTAMENTI. Non potendo tollerare questo stato di tensione, le persone cercano di ridurla e di riportare in armonia, ossia a una condizione di coerenza, atteggiamenti e comportamenti. Festinger sosteneva che per ridurre questa spiacevole tensione, spesso modifichiamo il nostro atteggiamento. Così se percepiamo dell’incoerenza, magari dell’ipocrisia, sentiamo una pressione al cambiamento.

La teoria della dissonanza cognitiva offre una spiegazione per l’autopersuasione  i cosiddetti “confirmation BIAS”, e consente di formulare alcune ipotesi sorprendenti.

La teoria della dissonanza cognitiva, quindi, afferma che in presenza dello spiacevole stato di tensione derivante dalla consapevolezza dell’incoerenza tra comportamenti e atteggiamenti, solitamente, mutiamo gli atteggiamenti. Perché, nonostante la nota tendenza al conservatorismo cognitivo che caratterizza l’essere umano cambiamo gli atteggiamenti e non i nostri comportamenti? Fondamentalmente per due ragioni:

  • il comportamento è già stato condotto a termine;
  • per il principio del minimo sforzo è meno faticoso mutare atteggiamento che non comportamento;

A parere di Festinger l’incoerenza da sola è capace di sostenere la dissonanza, ma studiosi come Joes Cooper e Russel Fazio (1984), hanno messo in evidenza che il processo è più complesso e lo hanno tradotto in fasi:

  1. la persona avverte il comportamento come incoerente con i propri atteggiamenti e la discrepanza tra comportamento e atteggiamento deve produrre conseguenze negative indesiderate;
  2. la persona deve assumersi la responsabilità personale del comportamento, responsabilità che fa riferimento a due dimensioni:
    1. libertà della scelta, se le persone credono di non avere scelta per i comportamenti agiti non si genera dissonanza;
    2. prevedibilità delle conseguenze dei comportamenti assunti, se l’esito di un comportamento non può realisticamente essere anticipato, non sorge alcuna dissonanza né si verifica alcun mutamento degli atteggiamenti;
  3. La persona deve sperimentare attivazione fisiologica, come già Festinger aveva sostenuto: la dissonanza viene percepita come uno sgradevole stato di tensione, di disagio.
  4. La persona deve attribuire l’azione fisiologica al comportamento agito: non è sufficiente avvertire una tensione, la tensione deve essere ricondotta alla discrepanza tra atteggiamento e comportamento.

La strategie per ridurre la dissonanza possono essere così riassunte:

  1. ridurre l’importanza di uno degli elementi dissonanti;
  2. aggiungere elementi cognitivi consonanti;
  3. modificare l’atteggiamento;

Tratto da: Manuale di psicologia sociale – Mcgrawill

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

IL DOPPIO VINCOLO

Il DOPPIO VINCOLO

Gli ingredienti necessari per una situazione di doppio vincolo, secondo noi sono:

  1. Due o più persone. Una di queste persone sarà indicata, per chiarezza e semplicità di definizione, come la “vittima”.
  2. Ripetizione dell’esperienza. Si suppone che il doppio vincolo sia un tema ricorrente nell’esperienza della vittima, diventa abituale.
  3. Un’ingiunzione primaria negativa. Questa può assumere una delle due forme seguenti: a) “non fare così e così, altrimenti…”, oppure b) “Se non farai così e così, ti punirò”. Si è scelto un contesto di apprendimento basato sull’evitare la punizione piuttosto che un contesto basato su un premio;
  4. Un’ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più astratto e, come la prima, sostenuta da punizioni o da segnali che minacciano la sopravvivenza.
  5. Un’ingiunzione negativa terziaria che impedisce alla vittima di sfuggire al conflitto.

Un esempio di doppio vincolo

Nel buddismo Zen si persegue lo scopo di raggiungere l’illuminazione, che il maestro Zen  tenta in vari modi di indurre nel suo discepolo. Ad esempio, il maestro alza un bastone sulla testa del discepolo, e gli dice con tono minaccioso: “se tu dici che questo bastone è reale, ti colpisco. Se tu dici che questo bastone non è reale, ti colpisco. Se non dici nulla ti colpisco”. Quindi l’individuo si trova in una situazione di questo genere dove:

  1. l’individuo è coinvolto in un rapporto intenso, cioè un rapporto in cui egli sente che è d’importanza vitale saper distinguere con precisione il genere del messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in maniera appropriata;
  2. E, inoltre, l’individuo si trova prigioniero di una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette allo stesso tempo messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro;
  3. E, infine, l’individuo è incapace di analizzare i messaggi che vengono emessi, allo scopo di migliorare la sua capacità di discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere; cioè egli non è in grado di produrre un enunciato metacomunicativo.

Tratto da ” VERSO UN’ECOLOGIA DELLA MENTE” di Gregory Bateson

 

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

Il COPING

Il concetto di COPING si riferisce al modo in cui le persone rispondono e fronteggiano situazioni avverse e sfidanti. Il termine “coping” tipicamente associato al concetto di stress, deriva dall’inglese “to cope with” e significa fronteggiare, reagire, resistere, gestire. La più nota formulazione teorica sul coping e  quella proposta da LAZARUS (1974), poi rielaborata da FOLKMAN nel 1984. Secondo Lazarus il coping consiste negli “sforzi cognitivi e comportamentali per gestire specifiche richieste esterne o interne (e conflitti tra di esse) che sono giudicate gravose o superiori alle risorse personali. Sono tre gli aspetti chiave di questa definizione:

  1. Il coping è legato al contesto piuttosto che essere guidato da caratteristiche  stabili di personalità;
  2. Le strategie di coping sono definite dallo sforzo di gestione intenzionale, che rende conto di quasi tutto ciò che un individuo fa nel corso delle proprie transazioni con l’ambiente. Di conseguenza, il coping non deve essere un atto portato a termine con successo ma un tentativo di far fronte al problema: l’attenzione è sul tentativo (che può consistere in atti comportamentali o cognizioni) piuttosto che sulla positività dell’esito.
  3. Il coping è considerato un processo che cambia nel tempo al variare di una particolare situazione. A monte di un’azione di coping vi è una valutazione della situazione e le conseguenze degli sforzi di coping rappresentano una nuova strategia da rivalutare per applicare ancora una volta le risorse di coping.

La teoria di Lazarus sul coping è a sua volta basata su due cornici teoriche. La prima, la teoria fenomenologico-cognitiva, anche denominata teoria transazionale-cognitiva (Tennen e Herzberger, 1985), è basata sull’assunto che l’individuo percepisce il mondo in modo unico e le sue percezioni costituiscono il campo fenomenico. L’ individuo reagisce all’ambiente a seconda di come lo percepisce. Nella fenomenologia i “dati oggettivi” non esistono ma dalla complessa gamma dei comportamenti umani è possibile ottenere informazioni che sono attendibili, significative e teoricamente rilevanti. E’ possibile registrare in modo sistematico e affidabile, sia le percezioni dell’ambiente da parte dell’individuo, che vanno a costruire il campo fenomenico (il problema), sia le reazioni a quell’ambiente (coping).

Il secondo fondamento teorico del lavoro di LAZARUS è il modello di interazione ambiente di KURT LEWIN (1936), secondo cui la persona e l’ambiente sono in uno stato dinamico costante di azioni e reazioni: ciò che una persona fa esercita un impatto sull’ambiente che, a sua volta esercita un impatto sull’individuo.

Uno dei primi a proporre questa visione è stato DEWEY, che già nel 1896 rilevava che uno stimolo è determinato dalla risposta nella stessa misura in cui la risposta lo è dalla stimolo. Questo approccio teorico è stato adottato da Lewin e, in anni più recenti da Lazarus.

LEWIN è stato considerato il fondatore della tradizione cognitiva (Nisbett e Ross, 1980). Essenzialmente, la formula  lewiniana stabilisce che il conportamento (C), è funzione (f) della persona (P) e dell’ambiente (A), cioè C = f (P, A). L’importanza dell’interazione persona-ambiente viene sostenuta da Cronbach (1957,1967), Hunt (1975) e Lewin (1935,1936), anche se in tempi più recenti è l’ambiente “PERCEPITO” ad essere considerato importante. La formula può essere pertanto rappresentata in modo più esteso come C = f ( P + S + Sp) dove C sta per coping, S per determinante situazionale e Sp per situazione percepita.  In questa formula entrambe le determinanti, situazione e persona, insieme alla percezione e alla valutazione della situazione (spesso basata sull’esperienza), si combinano come componenti critiche che determinano il coping.

La cornice “FENOMENOLOGICO-COGNITIVA” e  il modello di interazione persona “PERSONA-AMBIENTE” costituiscono la base teorica di gran parte della ricerca sul coping.

Lazarus e Folkman (1984) sostengono che lo stress fa riferimento alla fluida, costantemente mutevole relazione bidirezionale tra la persona e l’ambiente e, in quanto tale, è considerato una componente ordinaria del vivere quotidiano.

Secondo questo modello, lo stress viene considerato non come stimolo né come risposta, ma come un insieme di processi che comportano interazioni e adattamenti, chiamati “transazioni”, tra la persona e l’ambiente. La persona è vista come agente attivo, in grado di influenzare l’impatto degli eventi stressanti (stressors) mediante strategie emotive, cognitive, comportamentali.

Secondo Lazarus, vie è stress quando la persona si rende conto della discrepanza tra le richieste della situazione in cui si trova inserita e le risorse che ha a disposizione per farvi fronte. Non è importante in sé l’ampiezza delle richieste nel determinare l’esperienza di stress, in quanto vi sono delle differenza individuali significative nello stress sperimentato da persone nella stessa situazione, a causa delle differenze nelle abilità di coping.

Lazarus condivide con i terapisti cognitivo-comportamentali l’interesse per gli aspetti intra-individuali del comportamento piuttosto che per quelli interindividuali, o normativi, e infatti, nel suo lavoro, l’enfasi è posta sullo studio di uno stesso individuo nel tempo o in differenti situazioni.

Il modello di Lazarus pone l’enfasi sulla valutazione cognitiva come componente intrinseca del processo di coping. Il concetto di valutazione è centrale in questa formulazione teorica poiché una è parte importante del processo di coping e ha potere esplicativo. Essa è ciò che una persona fa per valutare se una particolare situazione è rilevante per il proprio benessere. In ogni singola situazione si ritiene abbiano luogo due forme di valutazione:

  • la valutazione primaria: in cui ci si chiede quali sono i benefici potenziali;
  • la valutazione secondaria: in cui solitamente la persona considera cosa può eventualmente fare per affrontare il pericolo, quali risorse può usare per migliorare la probabilità di ottenere un vantaggio.

Lazarus sottolinea il ruolo centrale delle cognizioni nelle risposte emozionali, affermando che quando si vivono le situazioni come problemi, è il significato che si dà alla transazione e il fatto di valutare la situazione come minacciosa, dannosa o stimolante che può influire sul tipo di emozione che ne deriva e sulla reazione di coping (percezione della situazione).

IL Modello di BARBARA DOHRENWEND

Il modello in questione  è basato sul concetto di Stress-Psicosociale, perciò ogni evento stressante  dà luogo a reazioni di varia natura (fisiologiche, emozionali, comportamentali, etc.) abitualmente transitorie. Ciò che segue dipende dalla combinazione di numerosi fattori e dall’azione di:

  • MEDIATORI PSICOLOGICI: livello di istruzione, capacità di socializzazione, sistema valoriale, caratteristiche psicologiche, locus of control, grado di empowerment, abilità di coping. Tutti questi elementi influenzano il processo di attribuzione di SIGNIFICATO agli eventi, il peso emotivo che attribuiscono ad essi, l’atteggiamento passivo o proattivo, la capacità di percepire e utilizzare fonti di sostegno presenti nel proprio “campo psicologico”.
  • MEDIATORI SITUAZIONALI: sono la fase del ciclo di vita  in cui ci si trova, a seconda della quale gli eventi assumono diverso rilievo, le caratteristiche della rete sociale;

Gli episodi di vita stressanti possono essere causati da eventi ambientali e situazionali, oppure da caratteristiche psicologiche della persona coinvolta nell’evento. Le forme di reazione allo stress hanno tutte in comune il fatto di essere transitorie e ad esse possono seguire tre possibili esiti:

  1. Crescita Psicologica;
  2. Nessun cambiamento psicologico;
  3. Psicopatologia;

 

 

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

Considerazioni sul concetto di “LEADERSHIP”

 

Il leader è la persona che può influenzare gli altri membri di gruppo più di quanto essa stessa sia influenzata. Il che vuol dire che anche il leader è influenzato dagli altri appartenenti del gruppo (dai suoi seguaci). Il potere è la capacità di influenzare (ma non come la leadership) o di vincere resistenze degli altri assicurandosi l’adesione degli altri membri o l’acquiescenza (il lasciarsi dirigere dagli altri senza opporre resistenza).
L ’ autorità è la legittimità dell’esercizio del potere che si fonda su regole stabilite e sul rispetto ad un certo campo di attività.

Il controllo è la valutazione del conseguimento degli obiettivi e ci si assicura che sia rispettato il patto fra gli attori sociali.

Quindi la leadership è un processo che coinvolge non solo il leader ma anche i suoi seguaci. E’ una forma di influenza sociale capace di creare consenso volontario e accettazione soggettiva e motivata degli obiettivi del gruppo. Leader e leadership sono termini inglesi che vengono utilizzati dappertutto.

Teorie sulla leadership.

TEORIA DEI TRATTI :  teorie del grande uomo è legata all’approccio dei tratti della personalità.
Riguarda le prime teorie sulla leadership in cui si è cercato di trovare un insieme, un set di tratti di personalità che predispongono ad essere leader: leader si nasce e non si diventa. Questi tratti, alla nascita, predispongono quasi alla predestinazione, a delle capacità, a degli insiemi di caratteristiche che fanno di una persona un leader. Alcune della caratteristiche sono: l’intelligenza, la capacità di cooperare, l’onestà, fiducia in se stessi, l’estroversione, l’adattabilità…queste sono alcune delle caratteristiche della personalità che sono emerse.
Viene considerato solo il leader, si tralasciano gli elementi situazionali e gli atteggiamenti dei seguaci. Ci sono invece situazioni in cui si può essere leader e situazioni in cui non si può essere leader. Ad esempio in alcune situazioni le persone con tratti socio-emozionali molto spiccati non sono adatti in situazioni in cui bisogna essere determinati e centrati sugli obiettivi.

STILI DI LEADERSHIP ( Lewin, Lippitt e White 1939)

  1. Autocratica: In questo caso il leader autocratico (accentuazione di autoritario) organizza, resta distaccato, non rende partecipi gli altri membri, dirige e inibisce le comunicazioni. Il leader da degli ordini ma non spiega mai lo scopo complessivo, i risultati sono  buona produttività dei sottoposti ma forte dipendenza dal leader tanto è vero che se il leader manca la produttività scende inesorabilmente.
  2. Democratica: in questo caso il leader democratico discute le decisioni e le attività con i membri del gruppo, è amichevole, disponibile con loro e non inibisce i contatti, è un leader partecipativo. La produttività è discreta anche se non alta come quella del caso precedente. I membri dimostrano buona motivazione e capacità di autogestione, il clima è sereno.
  3. Permissiva: in questo caso il leader permissivo interviene poco o per niente, lascia liberi i soggetti di agire, la produttività è bassissima perché non si sa cosa fare e il clima è caotico.

Questi stili di leadership  come visto vengono messi in rapporto con 2 variabili cruciali:

  1. clima di gruppo o come si sta dentro al gruppo ( si sta bene, si sta male, c’è tensione, c’è ostilità)
  2. la produttività ( quanto si produce nel gruppo. l’obiettivo).

MODELLI DELLA CONTINGENZA

Questi modelli considerano l’interazione fra gli stili di leadership e la situazione in cui si trova il gruppo, uno dei più noti è il modello di Fiedler. In questo caso lo stile di leadership viene misurato mediante un punteggio chiamato LPC ( Least Preferred Coworker: il meno preferito dei collaboratori). Per stabilirlo vengono usate delle scale bipolari di aggettivi e le persone devono valutare la persona con cui hanno lavorato sulla base di queste scale bipolari .
Se si ottiene:

  1. un alto punteggio di LPC significa che il leader ha uno stile centrato sulle relazioni;
  2. un basso punteggio di LPC significa che il leader ha uno stile centrato sul compito., per cui giudica

    negativamente la persona con cui ha lavorato peggio.

I fattori che indicano la situazione più o meno favorevole per il leader

  1. qualità dei legami fra leader e membri , ad esempio se sono ricchi (energia) o poveri (tensione);
  2. livello di struttura del compito. Ci possono essere compiti altamente strutturati e quindi più accessibili mentre gli altri possono dare problemi;
  3. potere del leader che può essere alto o basso.

Combinando questi 3 fattori situazionali nella loro valenza doppia positiva o negativa, otteniamo 8 gradienti possibili che vanno da un minimo o massimo della favorevolezza .

 

Le combinazioni più efficaci distili di leadership sono:

  1. Leadership centrata sulla situazione (LPC alto): abbiamo un funzionamento positivo in situazioni intermedie cioè né tanto positive né tanto negative (che sono la maggior parte nel modello di Fiedler) con un controllo moderato sulla situazione;
  2. Leadership centrata sul compito è efficace in situazioni o molto favorevoli o molto sfavorevoli. Per cui avremo un controllo alto o basso della situazione.

Quindi secondo il modello c’è la differenziazione fra leader orientati alla relazione e leader centrati sul compito.
Le critiche a questa teoria rimandano ad un’eccessiva semplificazione dei fattori situazioni. Il punteggio LPC rimanda quasi inevitabilmente ad una teoria dei tratti. La relazione del leader con i membri è molto più instabile di quanto ipotizzato.

TEORIA TRANSAZIONALE DI  HOLLANDER (1958)
Secondo Hollander la leadership ha un carattere processuale e dobbiamo considerare anche i seguaci che determinano la leadership. Hollander è il teorico del credito idiosincratico e cioè ha messo in luce che il leader deve guadagnare credibilità dei suoi seguaci attraverso questi 4 punti:

a. Conformità: il leader più influente dovrà conformarsi alle norme iniziali del gruppo quando entra, per poi cambiarle successivamente (strategia di tipo attendista, dove si acquista la fiducia degli old timers);

b. Legittimità: si distinguono leader legittimi ( può essere eletto – più efficace – o imposto dall’esterno). Inoltre ci sono situazioni in cui ci sono leader impliciti in cui non sono stati eletti formalmente;

c. Competenza rispetto agli scopi;
d. Identificazione forte del leader con gli scopi.

MODELLI TRASFORMAZIONALI E CARISMATICI

Tra gli approcci ricordiamo:
La Leadership Trasformazionale (Bons) cambia gli individui coinvolti ma allo stesso tempo cambia il leader coinvolto. Un esempio è di tale leader è Gandhi. Il leader trasformazionale è una persona che:

  1.  stimola le motivazioni dei seguaci e quindi è in grado di muovere le persone, delle motivazioni molto profonde;
  2. offre delle prospettive etiche a lungo termine;
  3. sviluppa le potenzialità dei seguaci. E’ una leadership molto forte che coinvolge anche il leader nel processo di cambiamento.

 LEADERSHIP CARISMATICA:  è una teoria con concetti molto vicini al modello precedente. Ad esempio Martin Luter King. Il leader carismatico:

  1. offre forti modelli di ruolo;
  2. ha delle competenze superiori all’obiettivo;
  3. pone degli scopi ideologici ed etici;
  4. ha delle aspettative molto elevate nei confronti dei seguaci;
  5. attiva dal profondo le motivazioni dei suoi seguaci.

Queste 2 teorie sono interessanti, molto utilizzati perché ci riportano ancora ai tratti infatti il carisma è difficile averlo se non lo si ha…. insomma, il rischio di queste teorie è che richiamano dei tratti personali molto forti.

MODELLO DI BASS E AVOLIO (1994). Tale modello prevede 3 tipi di leadership:

  1. la leadership trasformazionale. In essa troviamo elementi quali:
    • −  L’influenza idealizzata: i leader di questo genere sono molto rispettati, antepongono i bisogni degli altri ai propri (capacità di sacrificio), ha un comportamento etico, morale e danno una vision delle mete e danno un’identità all’organizzazione;
    • −  la motivazione ispirazionale: motivano i seguaci, rendono significativo il lavoro, esplicitano di continuo le loro aspettative nei confronti dei membri del gruppo;
    • −  la considerazione individualizzata: attenti ai bisogni di crescita dei loro sottoposti;
    • −  la stimolazione intellettuale: stimolare dal punto di vista cognitivo, intellettuale.
  2. la leadership transazionale: dove avviene uno scambio di solito, premi, remunerazioni monetarie tra leader e collaboratori che caratterizza il loro rapporto, nulla di più;
  3. la non leadership (permissiva) nella quale si notano:
    •  atteggiamenti lassisti;
    •  con rifiuto delle responsabilità;
    •  l’assenza di scambi con i seguaci;
    •   mancanza di feedback.

       

Categorie
Documentari di Psicologia

CARL GUSTAV JUNG

Categorie
Documentari di Psicologia

Marie-Louise Von Franz

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

Materia e Psiche nell’ottica delle Psicologia Analitica Junghiana

Com’è noto, due sono i pionieri dell’inconscio: Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. L’inconscio è stata la scoperta d’una realtà psichica al di là dell’IO cosciente. Freud vedeva nell’inconscio anzitutto l’ambito nel quale esistono pulsioni sessuali rimosse. Per Jung, invece, l’inconscio è anche essenzialmente un campo in cui si costellano percezioni oscillanti, anticipazioni di processi psichici evolutivi, precursori, cioè di ulteriori processi coscienti e, in generale, di tutti i contenuti creativi. Attento principalmente agli aspetti pulsionali dell’inconscio, Freud aveva sempre cercato un aggancio al sapere medico dell’epoca, alla neurofisiologia, all’endocrinologia e soprattutto alla ricerca sui processi biologici generali. Jung, per contro, respinse fin dall’inizio una connessione precoce dell’inconscio con i processi corporei e materiali, non perché non credesse a un simile rapporto, ma perché era convinto che i fenomeni dovessero essere esaminati in primo luogo nel solo ambito psichico per sé, e dovessero essere indagati in modo alquanto differenziato, prima di stabilire ponti con i processi somatici. Voleva in tal modo compensare il pregiudizio materialistico del suo tempo, mirante ad asserire frettolosamente che la psiche è un epifenomeno, cioè un  fenomeno secondario e accessorio che talora accompagna o segue un fenomeno primario senza apparente necessario rapporto con esso, dei processi fisiologici. Jung era convinto che l’esistenza di un legame con la fisiologia si sarebbe manifestata spontaneamente, quando i due ambiti avessero sufficientemente sviluppato le proprie ricerche. Questa connessione sembra delinearsi a poco a poco, sebbene non ancora nei particolari, in un luogo del tutto inatteso: nella microfisica. Jung è noto come lo scopritore del cosiddetto esperimento associativo, un test in cui figura una lista di cento parole, che si presume siano in parte indifferenti al soggetto e in parte possano eventualmente toccare qualsiasi rappresentazione emotiva. Il soggetto deve associare qualcosa a ogni parola nel più breve tempo possibile. Qualora venga toccato un complesso, il tempo di risposta si allunga considerevolmente. Inoltre i complessi si riferiscono all’intero ambito corporeo, e non solo al cervello, il che oggi è del tutto evidente: in psicosomatica si parla di nevrosi cardiache, o che coinvolgono altri parti del corpo. Jung concentrò anzitutto la sua indagine sull’influenza dei complessi inconsci sull’intera personalità, investigando nei dettagli il loro ruolo di componenti prefiguranti il destino, nella personalità del singolo individuo.

COSA INTENDE JUNG PER PSICHE?

Jung per psiche intende per prima cosa tutto ciò che è conscio, vale a dire tutto ciò che in noi è associato con il cosiddetto complesso dell’ IO. Quando so qualcosa, allora dico: “Lo so.”  In secondo luogo la psiche consta del cosiddetto inconscio cioè di ciò che è psichicamente sconosciuto e che tuttavia quando varca la soglia della coscienza, appare simile ai contenuti coscienti, ad esempio i sogni. In terzo luogo, appartiene alla psiche ciò che Jung denomina sistema psicoide intendendo con questo termine l’assolutamente ignoto, in cui la psiche sembra mescolarsi con la materia. I complessi pur essendo di per sé inconsci possono comprendere personalità più ampie che in determinati casi hanno una coscienza. Jung non vedeva nei complessi qualcosa di patologico, ma affermava al contrario l’esistenza di una sorta di complessi normali: il nostro sistema psichico si compone, normalmente, di diversi complessi, il complesso dell’Io è solo una tra i tanti. Jung ha denominato archetipi questi complessi normali. Si tratta di disposizioni innate o strutture psichiche inosservabili che riproducono rappresentazioni, pensieri, emozioni, motivi fantastici, strutturalmente simili, in situazioni ricorrenti tipiche.

Tratto da: “Psiche e Materia” di Marie-Louise von Franz

 

Categorie
Approfondimenti di Psicologia

Identificare le emozioni: il concetto di ALESSITIMIA

Anche se a volte sappiamo con chiarezza ciò che sentiamo, non è certo infrequente che le emozioni ci facciano sentire insicuri, disorientati o che facciano emergere in noi un conflitto. Non sapere cosa si prova può essere un indice di psicopatologia, ma non è certo sempre questo il caso. La nostra comprensione di un simile fenomeno non è ben sviluppata, e di conseguenza disponiamo di un linguaggio piuttosto limitato per descriverlo. Il costrutto di “ALLESSITIMIA” che indica la presenza di una generale difficoltà nella capacità di riconoscere i propri sentimenti, differisce dal fenomeno legato al contesto e può verificarsi in maniera abituale nell’esperienza di un individuo. La teoria delle emozioni di base, che è divenuta il modello dominante (ma non privo di critiche) nello studio delle emozioni, suppone che queste siano caratterizzate da un rapido esordio e una breve durata, e che siano basate su una valutazione automatica (Ekman, Davidson, 1994). Ma ci sono stati emotivi in cui l’individuo non è sicuro di ciò che sta sentendo. Il costrutto di alessitimia come tratto di personalità è utile, promettente e in grado di correlare con la diagnosi, ma dovrebbe essere affiancato da un termine che denoti confusione e incertezza senza implicare una mancanza dell’abilità di riconoscere i propri sentimenti. Per indicare ciò che sto tentando di descrivere si potrebbe utilizzare l’espressione “emozioni aporetiche“, ossia emozioni vaghe e prive di una caratterizzazione netta. Le emozioni aporetiche si manifestano quando sappiamo di star sentendo qualcosa ma non siamo certi di cosa sia, e quando la comprensione di simili sentimenti appare priva di direzione o bloccata. Introdurre questo termine è utile anche a ricordarci che spesso sentiamo un amalgama parziale e confuso delle cosiddette emozioni di base, e non semplicemente una di esse. Il termine “APORETICO” significa letteralmente “a=senza” e “poros=accesso”, ed è stato coniato per indicare l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, impossibilità a cui può portare il dialogo socratico. Pur essendo un termine associato con il dubbio e lo scetticismo, vuole indicare la difficoltà di acquisire conoscenza, non necessariamente l’impossibilità di farlo.

Persistenti difficoltà nella capacità di identificare le emozioni sono predittive di problemi più generali e accrescono la probabilità di sviluppare una psicopatologia. Il concetto più rilevante per le problematiche nell’identificazione delle emozioni, come già notato, è quello di alessitimia. L’alessitimia indica un deficit nella consapevolezza soggettiva e nell’elaborazione cognitiva delle emozioni, ed è strettamente connessa a problemi psicosomatici dal momento che le emozioni che non è possibile tollerare a livello mentale vengono interpretate in termini di stati corporei. Il costrutto di alessitimia è più ampio di quello di identificazione delle emozioni, poiché è associato a numerose forme di psicopatologia: disturbi dello spettro autistico, schizofrenia, tossicodipendenze, disturbi del comportamento alimentare, disturbi di personalità e disturbo da stress post-traumatico. I disturbi di personalità, risultano connessi al pensiero orientato all’esterno ma non all’identificazione delle emozioni. La difficoltà a identificare le emozioni è stata associata alla somatizzazione, indipendentemente dalla presenza di disturbi somatoformi, ansia e depressione. L’alessitimia è concepita come un tratto di personalità comune a varie forme di psicopatologia.

Tratto da: “Telenere a mente le Emozioni” di Elliot L. Jurist