Freud riteneva che la natura “umana” fosse apparsa come risultato di una lunga battaglia tra appetiti animali e norme civili di comportamento. A suo parere, una coscienza portatrice di un doloroso senso di colpa era una sorta di trionfo, perché preannunciava l’avvento di un codice etico civilizzato in una natura altrimenti inferiore. La psicopatologia, per Freud, riflette lo squilibrio tra queste forze interne necessariamente conflittuali.
Heinz Khout (1923-81) propose una visione dell’esperienza umana molto diversa, coerente con i temi fondamentali della letteratura e dell’analisi sociale della fine del XX secolo. Non parlò di battaglie, ma di isolamento, di sentimenti dolorosi di alienazione personale: l’esperienza esistenziale anticipata e descritta in modo tanto inquietante nella Metamorfosi di Kafka, in cui la persona è separata in modo terrorizzante dal senso del suo essere umano e si sente un “mostruosità non umana”. L’ uomo problematico di Khout non è lacerato dal senso di colpa per desideri proibiti; si muove invece in un’esistenza priva di significato. Privo del gusto per la vita che rende interessante ciò che è terreno, quest’uomo appare e agisce come un essere umano, ma vive l’esistenza come un lavoro faticoso, e i successi gli appaiono vuoti. Oppure è prigioniero di montagne russe emotive, in cui esplosioni di creatività si alternano a sentimenti dolorosi di inadeguatezza come reazione alle percezioni disgreganti di fallimento.
Il processo creativo subisce un cortocircuito; i tentativi di creatività vengono abortiti.
Le relazioni, ricercate con avidità, a volte in modo disperato, vengono ripetutamente abbandonate con un crescente pessimismo rispetto alla possibilità di procurarsi ciò di cui “si ha bisogno” dall’altro.
L’ uomo Freudiano era tipicamente “colpevole”; l’uomo di Khout è decisamente “tragico”.
Khout non immagina lo sviluppo come uno “shock culturale”, attraverso il quale la società civilizzata interviene e riesce infine a domare l’aspetto bestiale dell’essere umano, quanto piuttosto in termini di “adattamento” intrinseco. Khout giunse a convincersi che gli esseri umani devono essere programmati per prosperare in un certo tipo di ambiente umano. Tale ambiente deve in qualche modo fornire le esperienze necessarie che permettono al bambino di crescere non soltanto essendo umano, ma anche sentendosi umano, un membro vitale e integrato della comunità umana. Khout tentò di individuare queste condizioni ambientali cruciali nel primo periodo di vita del bambino.
I disturbi narcisistici
I contributi iniziali di Khout furono introdotti come una riformulazione radicale del concetto freudiano di narcisismo. Freud credeva che tutta l’energia libidica del bambino fosse inizialmente diretta verso il Sé, una condizione che definì narcisismo primario.
L’ esperienza precoce del bambino è magica e fantasmatica. Immerso in quella che Freud definisce l’onnipotenza del pensiero, il bambino si sente perfetto e dotato di ogni potere. Le prime occasioni di frustrazione nell’essere gratificato attraverso queste fantasie interrompono l’assorbimento narcisistico del bambino. Incapace di assicurarsi la gratificazione per questa via, il bambino rivolge la sua energia libidica all’esterno, verso gli altri, alla ricerca di una gratificazione tangibile, seppure imperfetta.
In questo processo, la libido narcisistica normalmente si trasforma in libido oggettuale, e il bambino fa dei genitori i suoi primi oggetti d’amore. L’ attaccamento ai genitori, e le fantasie edipiche che si sviluppano all’interno di esso, propongono l’ostacolo psichico successivo.
Se il bambino è incapace di rinunciare a queste fantasie edipiche, la sua libido si fissa sugli oggetti d’amore infantili, e il bambino diventa nevrotico.
In seguito, quando da adulto inizierà la terapia psicoanalitica, il transfert di quei tenaci attaccamenti infantili sulla persona dell’analista permetterà loro di essere vissuti intensamente, oltre a renderli disponibili per l’interpretazione psicoanalitica curativa.
Nella teoria la libido oggettuale e la libido narcisistica sono inversamente proporzionali. Freud paragona la libido al protoplasma dell’ameba: più protoplasma è presente nel corpo centrale dell’ameba, meno ce n’è negli pseudopodi che se ne dipartono e viceversa; maggiore è l’interesse verso sé stessi (libido narcisistica) meno energia è disponibile per gli attaccamenti verso gli altri (libido oggettuale) e viceversa.
Freud riteneva che gli stati schizofrenici fossero il prodotto di un massiccio ritiro della libido dai suoi oggetti fino a raggiungere una condizione di narcisismo secondario, che spinge l’individuo addirittura al di là, dei legami infantili verso i genitori, fino allo stato di egocentrismo magico, che caratterizza i primi mesi di vita.
In questa situazione il paziente non può trasferire i legami libidici con i genitori sulla persona dell’analista, perché non ha più legami da trasferire.
Gli analisti di oggi continuano a ispirarsi a questa teoria del narcisismo per spiegare certe difficoltà cliniche che devono affrontare.
Il trasnfert narcisistico: la prospettiva classica
Per Freud il trasnfert divenne il nucleo emotivo del trattamento psicoanalitico. La scoperta di tendenze conflittuali inconsce deve avvenire, stabilì Freud, all’interno di un contesto emotivamente carico, in cui il paziente vive nei confronti della persona dell’analista emozioni intense e conflittuali che hanno le loro radici nella sua infanzia. Così Freud (1912) definì la capacità di sviluppare il transfert come la condizione irrinunciabile per il paziente. Per Freud il transfert divenne un aspetto così fondamentale dell’analizzabilità che finì con il fondarci sopra la sua distinzione diagnostica fondamentale delle diverse psicopatologie. Egli era convinto che ciò che rende incurabile il paziente psicotico è il suo massiccio egocentrismo, che impedisce lo sviluppo del transfert. Così Freud distinse tra le “nevrosi di transfert“, che comprendevano vari disturbi nevrotici analizzabili come i disturbi ossessivi e l’isteria, e le “nevrosi narcisistiche“, che comprendevano vari disturbi psicotici, come la schizofrenia e la depressione grave, non accessibili al processo psicoanalitico.
Tratto da “L’esperienza della psicoanalisi” di A. Mitchell, M.J. Black